⇐ Torna a Pag. 1
Quell’anno Pasqua cadeva verso la fine del mese
di aprile e gli alberi d’ulivo non solo erano verdeggianti di foglie
con la chioma argentea ma avevano anche i fiori, grappoli di minuscole
palline verde chiaro.
In dialetto vengono definiti con la parola
“ntrata”, l’entrata, l’inizio del percorso che poi porterà i nuovi
frutti.
E gira di qua e gira di là. Questo ramo non mi piace e questo è spoglio;
la scelta ricadde su un paio di rametti belli, rigogliosi, pieni non
solo di foglie ma anche di palline di fiori che dovevano ancora sbocciare.
Erano talmente uno spettacolo che mia sorella, nell’attesa
dell’indomani, li mise in un vaso a mo’ di fiori.
In un primo momento tutto filò liscio ma pian piano mia sorella
incominciò ad avere dei dubbi e disse: “abbiamo tagliato questi con la
ntrata. Non ho mai visto palme con la ntrata!” Io da grande esperto
risposi: “quest’anno Pasqua è alta, già gli ulivi hanno i fiori… e poi
non sono palme, che hanno i datteri separati dalle foglie, ma ramoscelli
d’ulivo. Vedrai in chiesa saranno tutte così.”
Non fui molto convincente, comunque, tronfia di questi rami volle
portarli lei stessa in chiesa.
Durante il tragitto e durante la messa guardava le altre persone che
l’avevano, erano tutte senza le palline dei fiori e cercò di nascondere
in qualsiasi modo le nostre da sguardi indiscreti.
In chiesa non c’era posto e rimanemmo in piedi, vicino ad una colonna
con la quale mia sorella tentava di nascondere questo mazzetto di ramoscelli d’ulivo
fino a quando un prete indicò a mia sorella dei posti vuoti ma erano vicino all’altare
e mia sorella fece finta di non capire.
Allora venne da noi e mi sussurro ci sono i banchi del coro vuoti e prese mia sorella
per mano e la portò facendoci attraversare tutta la chiesa con le palme.
Mia sorella cercò di nascondere queste palme per tutta la funzione, cosa che non potette
fare quando, nel cortile del Santuario, il prete chiese di sollevare
questi rametti in aria per la benedizione.
Mentre il parroco si accingeva ad impartire la benedizione si sentì una
voce da dietro: “e carne quista, varda ce ntrata ca tene stannu!” (e
caspiterina questa, guarda quante olive ha quest’anno!) Nel silenzio che
richiedeva quel momento, quella frase la udirono tutti distintamente,
scandita, secca e precisa come un tuono a ciel sereno. Più chiara delle
parole del parroco attraverso l’amplificazione; anzi, fu quella la
vera benedizione. Anche il parroco la sentì e non riuscì a trattenere il
sorriso; sarebbe bastato che dicesse: “Andate in pace, amen.”
Mia sorella mi lancio uno sguardo… che mi scorticò tutta la faccia… tipo
raggio laser… di quelli dove le parole sono superflue.
A quel punto lei, ferma, continuò a tenere in alto i ramoscelli,
meditando ogni decimo di secondo che durò la benedizione la punizione da
infliggermi.
Sii! Perché, alla fine di tutto, la colpa di quello che accade è sempre
mia.
Da quell’anno ho imparato a mie spese che le palme non vengono ricavate
dai rami più belli, come noi supponevamo, ma vengono presi i rami di
sotto, quelli selvaggi belli o brutti che siano, quelli che comunque
vanno potati.
Quasi dimenticavo di dirvi che da quell’anno la tradizione è cambiata:
1) le palme le taglio io, dagli alberi di ulivo della nostra campagna,
rigorosamente senza “ntrata”;
2) io sono stato promosso a portatore ufficiale di palme con la formula,
da ripetere sempre negli anni avvenire, per l’insignitura ufficiale: “tu
le devi fare e tu le porti a benedire, pallonaro! (Racconta balle)”.